La Cassazione sul diritto d’autore su un’opera parte di un allestimento (e sulle conseguenze di Cofemel)

Con sentenza n. 11413/24 del 29 aprile scorso, la Corte di Cassazione civile ha confermato la sentenza 2089/22 della Corte d’Appello di Milano che aveva negato tutela di diritto d’autore alla lampada qui sotto a sinistra nei confronti di quella di destra.

Nello specifico, la lampada di sinistra era stata disegnata dai fratelli Pier Giacomo e Achille Castiglioni come parte dell’allestimento raffigurato in foto, realizzato per la X Triennale di Milano del 1954. Essa non era poi stata oggetto di produzione seriale: la sua produzione si era limitata agli esemplari utilizzati nell’allestimento.

La lampada di destra, invece, era stata disegnata nel 2015 da un nipote dei Castiglioni, in dichiarato omaggio all’opera degli zii (tanto da darle il nome “1954”), ed era stata da questi licenziata per la sua commercializzazione a una società francese. A fronte di ciò, la figlia ed erede di Pier Giacomo Castiglioni aveva agito in giudizio contro il cugino e la società commercializzatrice per violazione di diritti d’autore sulla prima lampada.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1320/21, aveva accolto la domanda della figlia, affermando che la prima lampada in sé era tutelabile ai sensi della legge sul diritto d’autore poiché possedeva i necessari requisiti del carattere creativo e valore artistico anche da sola considerata, “estrapolata cioè dal contesto del più ampio allestimento ove risultava inserita, come elemento di spicco dello stesso e comunque senz'altro dotato di piena autonomia (…), il cui interesse e valore estetico rimaneva tuttora intatto a distanza di decenni dalla sua creazione, a conferma della specifica capacità rappresentativa di un gusto artistico che differenziava tale prodotto dalla congerie delle produzioni di design di effimera e ordinaria concezione”.

La seconda lampada ne era quindi stata considerata un plagio, sul rilievo che essa presentava “soltanto due variazioni, egualmente irrilevanti, la prima dimensionale, la seconda di carattere puramente funzionale; in sostanza, l'originario allestimento era realizzato con l'uso di 22 coni da quattro metri di diametro e con un elemento illuminante - il faretto - posto fuori dal cono, mentre la lampada contestata presentava la dimensione di un normale lampadario e l'elemento illuminante era posizionato all'interno del cono trasparente”.

La decisione era tuttavia stata ribaltata dalla Corte d’Appello di Milano, che aveva ritenuto la prima lampada non tutelabile dal diritto d’autore e la cui sentenza è stata appunto confermata ora dalla Cassazione.

La decisione della Cassazione, in realtà, non esprime una propria valutazione nel merito, limitandosi ad affermare che la sussistenza dei requisiti per ottenere tutela autoristica è oggetto di un giudizio di fatto il cui riesame è precluso alla Suprema Corte.

D’altro canto, tale sentenza pare avallare valutazioni della Corte d’Appello che non brillano per chiarezza, perché sembrano sovrapporre i due requisiti richiesti dalla legge italiana per la tutela dell’industrial design (art. 2 n. 10 l.d.a.): carattere creativo e valore artistico. Infatti, da un lato si afferma che la lampada da sola considerata difetterebbe di “carattere creativo”, ma dall’altro tale carattere creativo non viene analizzato (e peraltro nella prassi raramente viene ritenuto insussistente dai giudici): la motivazione si fonda sostanzialmente sulla valutazione del valore artistico.

In particolare:

i)               viene innanzitutto richiamata la giurisprudenza secondo cui “il valore artistico dell’opera va provato da chi invoca la protezione sulla base di parametri oggettivi, non necessariamente tutti presenti in concreto, quali il riconoscimento delle qualità estetiche ed artistiche da parte degli ambienti culturali ed istituzionali, l'esposizione in mostre o musei, la pubblicazione su riviste specializzate, l'attribuzione di premi, l'acquisto di un valore di mercato tale da trascendere quello legato alla funzionalità, la creazione da parte di un noto artista (Cass., n. 33199/2023; n. 23292/2015)”;

ii)              i Giudici procedono quindi a verificare il valore artistico nel caso concreto, e affermano che le prove agli atti consistevano in riconoscimenti, articoli di giornale e fotografie che facevano sempre riferimento all'allestimento nel suo complesso e non alla singola lampada. Alla luce di tali prove, concludono, “deve ritenersi che la percezione dell'opera del design (lampada) in questione si sia consolidata nella collettività, ed in particolare negli ambienti culturali in senso lato, nella sua funzione scenografica, e che il rilievo iconico della stessa non sia da attribuire al corpo illuminante in sé e per sé, bensì al suo utilizzo quale "strumento di costruzione dello spazio espositivo”.

In sintesi, al di là della questione carattere creativo / valore artistico menzionata sopra, quel che emerge dalla decisione di appello è una asserita lacuna probatoria: le prove, in quanto riferite sempre all’allestimento nel suo complesso, sono state ritenute capaci di dimostrare la tutelabilità autoriale di quest’ultimo ma non della singola lampada. Valutazione che potrebbe far sorgere qualche perplessità, ma su cui in concreto non è possibile pronunciarsi senza avere visto le prove in questione.

Peraltro, viene in ogni caso escluso il plagio per via del corpo illuminante posizionato dentro la seconda lampada, al posto del faretto esterno della prima lampada: ciò, “lungi dal costituire mero elemento "irrilevante" (come asserito dal Tribunale), appare tale da escludere in radice la stessa ipotesi di plagio, concorrendo a integrare una diversa modalità diffusiva della luce ed un diverso impatto visivo e stilistico”. Anche questa valutazione in effetti desta qualche perplessità, e in questo caso l’esame delle immagini sopra raffigurate sembra sufficiente a far ritenere più corretta – secondo chi scrive – la valutazione in senso contrario operata dal Tribunale di Milano.

La Cassazione richiama anche un altro punto della decisione di Corte d’Appello che non appare condivisibile, ovvero il cenno al fatto che la lampada in sé non potrebbe comunque essere tutelata come oggetto del design industriale perché non prodotta in modo seriale ma solo ai fini dell’allestimento. Non si comprende, a parere di chi scrive, quale sarebbe il fondamento di una simile affermazione. Ed è peculiare, tra l’altro, notare come anni fa si sostenesse il contrario, ovvero che proprio la riproduzione seriale dell’industrial design ne escludesse la tutela di diritto d’autore.

Infine, un punto degno di nota della decisione della Cassazione riguarda un brevissimo accenno alle differenze di tutela tra la normativa italiana e quella europea, in particolare dopo la sentenza Cofemel di cui abbiamo parlato qui in questo blog. La Cassazione rileva infatti che “risulta da costante giurisprudenza comunitaria che, perché un oggetto possa essere considerato originale, è necessario e sufficiente che questo rifletta la personalità del suo autore, manifestando le sue scelte libere e creative (…), non essendo necessario il requisito ulteriore costituito dall'effetto visivo da essa prodotto rilevante da un punto di vista estetico (CGUE, 12.9.2019, causa C-683/17; in tal senso, anche Cass., n. 8433/2020)”. La Cassazione, come già aveva fatto nel caso Kiko di cui abbiamo parlato qui in questo blog, sembra quindi di nuovo avallare la necessità di un’interpretazione della legge italiana che disapplichi il requisito del “valore artistico” in quanto non in linea con la normativa UE.

Un ultimo cenno sulle conseguenze della sentenza. Viene da chiedersi, a questo punto, quale sarebbe la tutela contro eventuali plagi della stessa seconda lampada (la “1954” del nipote Castiglioni), che, alla luce della sentenza appena commentata, da un lato farebbe fatica a sua volta a vedersi riconosciuta tutela di diritto d’autore; dall’altro, non risulta nemmeno registrata come disegno (per il quale pure, in ogni caso, sarebbe probabilmente difficile sostenere la sussistenza del carattere individuale). Residuerebbe la tutela contro la concorrenza sleale, in particolare per imitazione servile, ove si riconoscesse capacità distintiva alla sua forma.

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