UPC: la DC di Monaco dispone una cauzione per spese legali per via di fattori finanziari e della Brexit

Con ordinanza del 30 ottobre 2023, la Divisione Centrale dell’Unified Patent Court (UPC) di Monaco ha condannato la società attrice in un'azione di revoca di brevetto a pagare una cauzione di € 300.000 per le spese legali della società convenuta (ord. 574057/23 – UPC_CFI 252/2023, President and Fellows of Harward College vs NanoString Technologies Europe Ltd).

La richiesta della convenuta era fondata sull'art. 69(4) UPCA e sulla regola 158 RoP, ai sensi della quale, in qualsiasi momento del procedimento, su richiesta motivata di una parte, il Tribunale può ordinare all'altra parte di fornire un'adeguata cauzione per le spese legali della parte richiedente che l'altra parte potrebbe dover rimborsare.

Come evidenziato dalla decisione in commento, il Tribunale ha potere discrezionale di ordinare la cauzione, basandosi in particolare su:

i)               la situazione finanziaria della parte, che possa far sorgere una legittima e reale preoccupazione che un eventuale ordine di rimborso delle spese rimanga inadempiuto; e/o

ii)              la probabilità che, dal punto di vista procedurale, sia impossibile o indebitamente oneroso procedure all’esecuzione di un simile ordine.

Nel caso specifico, la DC ha ritenuto opportuno disporre la cauzione sulla base delle seguenti considerazioni:

i)               la società attrice ha sede nel Regno Unito dove, dopo la Brexit, il Regolamento (UE) n. 1215/2012 non è più applicabile, e dove non risultano applicabili nemmeno la Convenzione di Lugano o altri strumenti che regolino il riconoscimento automatico e l'esecuzione delle sentenze emanate dai tribunali dell'UE. Pertanto, “vi è indubbiamente un ulteriore onere (procedurale) e un’incertezza per la parte che cerca di eseguire una sentenza UPC (sui costi) nel Regno Unito rispetto ad altre giurisdizioni UE”;

ii)              la società controllante dell’attrice, in un procedimento parallelo pendente dinanzi all'UPC, aveva dichiarato che un’inibitoria emanata nei suoi confronti avrebbe messo a rischio l'esistenza dell'intero gruppo, e l’inibitoria è stata in effetti poi emanata, materializzando tale rischio;

iii)            l’attrice non aveva fornito alcuna informazione circa la propria situazione finanziaria o patrimoniale, ma si era basata esclusivamente sulla liquidità del suo gruppo di società. Tuttavia, la DC ha osservato:

-       “il gruppo, secondo le sue stesse parole, non è mai stato redditizio e quindi fa affidamento sul denaro degli investitori”;

-       “è pacifico che il gruppo ha debiti a lungo termine che superano l'importo della sua liquidità”.

Per quanto riguarda l'importo della cauzione, la convenuta ha fatto riferimento alla tabella dei massimali delle spese rimborsabili stabilita dal comitato amministrativo (AC) dell'UPC, sostenendo che la cauzione per un valore controverso di € 7,5 milioni fosse pari a € 600.000. La DC ha invece ritenuto giusto, ragionevole e proporzionato disporre una cauzione di € 300.000, poiché:

i)               la tabella predisposta dall'AC si riferisce all'importo massimo dei costi recuperabili; e

ii)              l’art. 69 UPCA prevede che solo le spese legali “ragionevoli e proporzionate” siano rimborsate dalla parte soccombente e che venga presa in considerazione anche l'“equità”. Poiché la convenuta non aveva fornito alcuna informazione sui propri costi effettivi e sulla loro ragionevolezza e proporzionalità, la somma di € 300.000 è stata ritenuta adeguata.

La decisione ha già fatto discutere in relazione al fattore “Brexit” considerato dalla Corte, anche perché una tesi simile, avanzata con riferimento alla giurisdizione statunitense, è stata invece respinta dalla sezione locale di Monaco in un altro caso (ord. 576853/ 23 UPC_CFI 12/2023).

D'altro canto potrebbe essere discutibile se, in linea di principio, sia giusto imporre una simile cauzione senza alcuna valutazione della probabilità che la parte alla fine sia soccombente nel merito e debba quindi pagare le spese legali della controparte. Di fatto, ciò potrebbe portare all’impossibilità per le aziende di far valere i propri diritti, anche in casi c.d. “clear-cut”, se esse non sono “abbastanza ricche”.

 

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