Morellato vs. Morellato: quando l’uso del patronimico non è sufficiente ad escludere la contraffazione

Con ordinanza del 10 maggio scorso, il Tribunale di Venezia ha riconosciuto in via cautelare la contraffazione del marchio denominativo celebre “Morellato” della ricorrente Morellato S.p.A., storica azienda italiana di gioielleria ed orologeria, ad opera di un’altra società italiana che aveva denominazione sociale, marchio e nome a dominio identici – e corrispondenti al patronimico dei suoi soci fondatori – ma operava, tra gli altri, nel settore della produzione di profumi e di cosmetici.

La resistente aveva adottato la denominazione sociale “Morellato” nel 2013, ed era titolare di due marchi denominativi “Morellato”, l’uno italiano, l’altro europeo, depositati rispettivamente nel 2004 e nel 2005, a fronte di quello della ricorrente oggetto di numerose registrazioni sia nazionali che comunitarie a far tempo dal 1989. Essa aveva registrato inoltre nel 2014 il nome a dominio www.morellatobeauty.it, a fronte del domain name www.morellato.it registrato dalla ricorrente nel 1996. La ricorrente quindi aveva proposto ricorso per inibitoria cautelare contro la resistente lamentando, inter alia, la registrazione in mala fede da parte di quest’ultima dei marchi denominativi, del domain name e della denominazione sociale in questione, oltre che la contraffazione del proprio marchio denominativo celebre ad opera dei segni distintivi della resistente.

La resistente si era difesa sostenendo, in primo luogo, che i propri marchi sarebbero stati oggetto di convalidazione ex art. 28 CPI, avendone la ricorrente tollerato l’uso per oltre cinque anni consecutivi. Inoltre, secondo la resistente il marchio azionato dalla ricorrente non era dotato di rinomanza, per cui non godeva della tutela extramerceologica concessa ai marchi celebri, e la totale diversità tra i prodotti per cui i marchi erano stati registrati avrebbe di per sé escluso ogni ipotesi di contraffazione: i marchi della resistente erano infatti registrati per prodotti (tra cui profumi, cosmetici e articoli di abbigliamento) completamente diversi da quelli del marchio della ricorrente (tra cui metalli preziosi, gioielleria ed articoli in pelle). Infine, la resistente affermava la legittimità, da un lato, dell’uso della denominazione sociale e dei marchi contestati, in quanto tali segni sarebbero stati espressione del patronimico “Morellato” proprio dei suoi stessi titolari; dall’altro, dell’uso del proprio domain name, dal momento che quest’ultimo sarebbe stato sufficientemente diverso da quello della ricorrente per via della parola aggiuntiva “beauty”.

In sede di decisione, il Giudice non ha ritenuto meritevole di accoglimento nessuna delle argomentazioni avanzate dalla resistente.

Egli ha, infatti, escluso l’intervenuta convalidazione dei marchi rivendicata dalla resistente, dal momento che la documentazione prodotta da parte della stessa era risultata inadeguata in quanto non riferita specificamente ai marchi contestati ma ad altri, e non essendo questa comunque idonea a provare l’uso degli stessi per i cinque anni consecutivi, come invece richiesto dall’art. 28 CPI ai fini della convalidazione.

Ancora, quanto al tema del patronimico, il Giudice ha stabilito che, se è vero che l’uso di quest’ultimo può costituire limitazione del diritto di marchio altrui, è altrettanto vero che tale scriminante è invocabile solo quando tale uso sia conforme ai principi della correttezza professionale. Nel caso di specie, tuttavia, “è innegabile che il segno Morellato sia utilizzato dalla convenuta sic et simpliciter in funzione puramente distintiva e non per indicare il nome e cognome dei soci della convenuta, finendo per focalizzare per intero l’attenzione sul segno Morellato”. In tal senso l’uso del patronimico non può dirsi lecito – né, di conseguenza opponibile, al marchio azionato dalla resistente – essendo “idoneo a dare l’impressione che esista un legame commerciale tra il terzo ed il titolare del marchio” della ricorrente.

Dopo aver escluso le possibili limitazioni alla tutela del marchio azionato, il Giudice è passato quindi all’esame della sussistenza della contraffazione tra i segni, riscontrando l’evidente identità tra gli stessi, a fronte di una certa differenza tra i prodotti contraddisti. Non ha, tuttavia, ritenuto che tale differenza escluda il rischio di confusione tra i segni (anche sotto forma di associazione tra gli stessi), dal momento che i prodotti in questione possono “ricondursi al comune settore della moda e del lusso” e ritenersi dunque affini. Stabilito ciò, ha quindi riconosciuto – per quanto in via sommaria – la contraffazione del marchio azionato ad opera dei marchi della resistente, anche in applicazione del noto principio comunitario secondo cui un “tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi e viceversa”. Peraltro, il Giudice ha ritenuto adeguatamente provata anche la rinomanza del marchio dalla ricorrente, tale da rendere quest’ultimo azionabile contro qualunque altro marchio simile adottato per prodotti anche non affini.

Alla luce di tutto quanto sopra, il Tribunale adito ha inibito alla resistente l’utilizzo in qualsiasi forma e modalità del marchio Morellato di titolarità della ricorrente e dunque anche sotto forma di denominazione sociale o domain name, stante l‘unitarietà della tutela spettante a tutti i segni distintivi dell’impresa sancita dall’art. 22 CPI, condannando la resistente al pagamento delle spese di lite.

Si precisa tuttavia che il provvedimento è soggetto a reclamo cautelare, oltre a poter essere disatteso da una sentenza di merito che giunga a conclusioni diverse.

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