Fiorucci non può usare il proprio nome come marchio, dice la Cassazione

Lo scorso 25 maggio la Corte di Cassazione civile si è pronunciata con sentenza n. 10826/16 su una vertenza di cui si è parlato molto negli ultimi anni, sia per la notorietà dei soggetti coinvolti, sia per l’ampio contenzioso a cui essa ha dato origine: la controversia tra lo stilista Elio Fiorucci e le società che hanno acquistato i marchi “Fiorucci” già nel 1990 (Edwin Co. Ltd. e Edwin International Gmbh), con cui lo stilista ha collaborato fino al 2002. Ne abbiamo già parlato anche qui in questo blog.

In questo specifico caso era in discussione l’utilizzo, da parte dello stilista e di società ad esso collegate, del marchio “Love Therapy by Elio Fiorucci”: questo veniva usato su prodotti di abbigliamento e accessori venduti nell’omonimo negozio milanese dello stilista nonché – sulla base di contratto di cobranding – su prodotti dolcificanti commercializzati da una società terza. A fronte delle doglianze di Edwin, che lamentava la contraffazione dei propri marchi “Fiorucci” e la concorrenza sleale posta in essere a suo danno, il Tribunale di Milano aveva accertato la sola contraffazione di marchio, mentre la Corte d’Appello milanese aveva escluso la sussistenza anche di quest’ultima. Da qui il ricorso in Cassazione di Edwin.

Nella decisione in commento, la Corte precisa innanzitutto che il cuore del marchio contestato è il patronimico “Fiorucci”, e ricorda che i patronimici sono normalmente marchi forti. Essa richiama quindi un proprio precedente secondo cui “l’utilizzazione commerciale del nome patronimico deve essere conforme ai principi della correttezza professionale e, quindi, non può avvenire in funzione di marchio, cioè distintiva, ma solo descrittiva, in ciò risolvendosi la preclusione normativa per il titolare del marchio di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome; ne consegue che sussiste la contraffazione quando il marchio accusato contenga il patronimico protetto, pur se accompagnato da altri elementi”. Ciò, affermano i Giudici, discende dall’art. 21 CPI, secondo cui il titolare di un marchio non può vietare al terzo l’uso del suo nome nell’attività economica “purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale”.

Detto in altre parole, continua la decisione in commento, “una volta che un segno costituito da un certo nome anagrafico sia stato validamente registrato come marchio, neppure la persona che legittimamente porti quel nome può più adottarlo (come marchio) in settori merceologici identici o affini”. Nel caso di specie, invece, era stato fatto proprio questo: il marchio forte altrui era stato illegittimamente inserito nel marchio e nella denominazione del negozio milanese dello stilista.

Secondo la Corte, infatti, l’uso del patronimico “Fiorucci” all’interno del segno in contestazione non appare semplice uso descrittivo legittimo ex art. 21 CPI: tale uso era stato rilevante e non limitato al lavoro creativo dello stilista ma relativo anche a “attività di coordinamento del lavoro altrui, della commercializzazione di prodotti di altre imprese e nei settori più disparati, a vere e proprie attività economiche di merchandising, di cobranding e di comarketing che non appaiono conformi alla ristretta area in cui l’uso del patronimico, dapprima registrato come marchio dallo stesso suo autore che l’ha poi ceduto a prezzo congruo, può consentire ancora al suo creatore di poterlo in qualche misura impiegare, con riferimento descrittivo alle sue attività professionali, senza che si produca l’effetto di agganciamento e di confusione di cui giustamente si dolgono le ricorrenti”.

Da qui l’enunciazione del seguente principio di diritto: “l’inserimento, nel marchio, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l’abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l’abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in una ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa ma senza trasformare la stessa in un’attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva”.

Alla luce di quanto precede, la Cassazione accoglie il ricorso di Edwin, cassa la sentenza della Corte d’Appello milanese e rinvia la causa al giudice di merito perché questo la decida in conformità con i principi sopra espressi

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Morellato vs. Morellato: quando l’uso del patronimico non è sufficiente ad escludere la contraffazione

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