La Cassazione conferma: l’interior design è tutelato dal diritto d’autore

Con sentenza n. 8433/2020, la Cassazione ha accordato tutela di diritto d’autore agli interni dei negozi della nota catena di cosmetici Kiko, confermando le conclusioni raggiunte in precedenza da Tribunale e Corte d’Appello di Milano e cogliendo l’occasione per una sintesi della giurisprudenza in merito. Della sentenza milanese di primo grado avevamo già parlato qui in questo blog. Sullo stesso tema, avevamo commentato qui in questo blog un’ordinanza della sezione specializzata di Venezia relativa alla tutela degli interni di uno yacht.

Nel caso in commento, Kiko aveva agito in giudizio contro una concorrente lamentando che questa avesse copiato l’aspetto dei propri negozi, così violando i propri diritti patrimoniali d’autore sul progetto ai sensi dell’art. 2 n. 5 L.A. che tutela “i disegni e le opere dell’architettura”. Secondo l’attrice, inoltre, la convenuta si era resa responsabile anche di atti di concorrenza sleale a suo danno, per aver ripreso varie proprie iniziative promozionali e commerciali.

Il Tribunale di Milano aveva ravvisato nelle condotte della convenuta sia la lesione dei diritti d’autore di Kiko ai sensi dell’art. 2 n. 5 L.A. sia la concorrenza sleale parassitaria sanzionata dall’art. 2598 co. 1 n. 3 c.c., condannando la convenuta al risarcimento del danno liquidato in € 700.000. La pronuncia era stata poi confermata dalla Corte d’Appello milanese, e quindi impugnata avanti alla Corte di Cassazione dalla società accusata della violazione (di seguito la “ricorrente”).

Con la pronuncia in esame, la Cassazione conferma in particolare che “un progetto di arredamento di interni, nel quale vi sia una progettazione unitaria di singole componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, in uno schema in sé visivamente apprezzabile che riveli una chiara «chiave stilistica» ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile come progetto di opera dell’architettura, ai sensi dell’art.5 n. 2 I.a.”. Ciò, ovviamente, vale “a prescindere dal fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore”: ciò che conta è che si tratti di un “risultato di combinazione originale, non imposto da un problema tecnico-funzionale che l’autore vuole risolvere”. In merito, la Corte ricorda peraltro che il grado di creatività richiesto a un’opera perché questa possa godere di tutela di diritto d’autore è minimo “e non può essere, quindi, escluso sol perché l’opera sia composta da idee e nozioni ‘semplici’, comprese nel patrimonio intellettuale di persone ‘aventi esperienza nella materia’, tanto più in quanto oggetto della protezione del diritto di autore non è l’idea o il contenuto intrinseco dell’opera, ma la rappresentazione formale ed originale in cui essa si realizza”.

Tuttavia, precisa la Corte, per essere tutelabile, “il progetto o l’opera di architettura d’interni deve essere sempre identificabile e riconoscibile sul piano dell’espressione formale come opera unitaria d’autore, per effetto di precise scelte di composizione d’insieme degli elementi (ad es. il colore delle pareti, particolari effetti nell’illuminazione, la ripetizione costante di elementi decorativi, l’impiego di determinati materiali, le dimensioni e le proporzioni). Infatti, l’esclusiva riguarda il complesso, l’opera unitaria di organizzazione dello spazio, l’utilizzo congiunto degli elementi di arredo secondo il medesimo disegno organizzativo”.

Confermata così la tutelabilità del progetto di arredamento in questione, la Cassazione ne conferma altresì la contraffazione da parte della ricorrente. Sul punto, in replica alle censure della ricorrente, la Corte ricorda che “si ha violazione dell’esclusiva non solo quando l’opera è copiata integralmente (riproduzione abusiva in senso stretto), ma anche quando vi sia contraffazione dell’opera precedente implicante delle differenze oltre che delle somiglianze”. Di conseguenza, continua la Corte, “quando si tratta di valutare se c’è o meno contraffazione non è determinante, per negarla, l’esistenza di differenze di dettaglio, rilevando solo che i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore siano riconoscibili nell’opera successiva”.

La Cassazione accoglie invece l’impugnazione per la parte relativa alla concorrenza sleale: in accordo con la ricorrente, la Corte rileva che i giudici di merito avevano ravvisato la sussistenza della concorrenza sleale parassitaria senza tuttavia verificare se le iniziative asseritamente copiate presentassero la necessaria originalità, ciò che la ricorrente aveva contestato. In merito, la Cassazione afferma: “deve essere effettuata un valutazione puntuale, proprio per la tipologia di illecito concorrenziale ed in relazione alle precise contestazioni mosse dalla concorrente, non potendo essere sufficiente il ricorso a generiche formule di stile, basate su di una mera somiglianza d’insieme delle iniziative commerciali, incorrendosi, in tal modo, in una omessa pronuncia o motivazione del tutto apparente in merito alla sussistenza o meno degli elementi costitutivi che devono ricorrere per integrare una fattispecie di concorrenza parassitaria”.

La Suprema Corte accoglie altresì il capo di impugnazione relativo alla condanna al risarcimento del danno, che i Giudici di merito avevano liquidato in via equitativa in € 700.000 moltiplicando per dieci il prezzo pagato da Kiko allo studio di progettazione che aveva realizzato il progetto. Il moltiplicatore (10) usato dai giudici di merito, infatti, non era stato motivato e risultava perciò arbitrario, in contrasto con i principi che regolano la liquidazione equitativa del danno: “è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”. In effetti la valutazione equitativa non è censurabile in Cassazione, sempre che i criteri seguiti siano enunciati in motivazione e non siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto”.

Alla luce del parziale accoglimento dell’impugnazione, la sentenza della Corte d’Appello milanese è stata quindi cassata, e la causa rinviata alla medesima Corte in diversa composizione.

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È configurabile il reato di appropriazione indebita di un dato informatico: Cass. n. 11959/2020

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