Corte di Giustizia UE: Amazon non è responsabile per le violazioni di marchio commesse da terzi
Con una recente sentenza resa nel procedimento C-567/18, la Corte di Giustizia Europea, chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione degli artt. 9 Reg. 207/2009 e 9 Reg. 1001/2017 sul marchio dell’Unione Europea, ha chiarito che un soggetto che conserva in magazzino per conto di terzi dei prodotti che violano un marchio altrui non commette a sua volta una violazione di tali diritti di marchio, salvo che il magazzinaggio dei prodotti in questione sia finalizzato alla loro commercializzazione da parte dello stesso titolare dello stock, oppure questi sia a conoscenza della violazione del marchio.
Il caso ha avuto origine dalla vicenda giudiziaria sorta tra l’azienda tedesca Coty Germany GmbH, attiva nella distribuzione di profumi e licenziataria del noto marchio DavidOff, e alcune società del gruppo Amazon (in particolare, Amazon Service Europe e Amazon FC Graben), avente ad oggetto la commercializzazione tramite il servizio «Amazon-Marketplace» di prodotti illecitamente immessi sul mercato UE. Amazon-Marketplace, infatti, è un servizio attraverso cui la società Amazon Service Europe offre a venditori terzi la possibilità di pubblicare su www.amazon.de offerte di vendita per i propri prodotti. Accanto a tale servizio, la società Amazon FC Graben offre ai medesimi venditori terzi un servizio connesso di magazzinaggio dei prodotti commercializzati tramite il Marketplace, affidando, infine, a società esterne il servizio di spedizione al cliente. In caso di acquisto, il contratto viene concluso direttamente tra il venditore terzo e il cliente.
Nel 2014, effettuando un acquisto-test di un profumo a marchio DavidOff venduto tramite la piattaforma, la società Coty aveva appurato che tutti flaconi commercializzati tramite Amazon-Marketplace da una determinata venditrice-terza erano stati immessi sul mercato senza il consenso del titolare del marchio; pertanto, la loro commercializzazione doveva qualificarsi come illecita. Coty aveva quindi adito il giudice tedesco, chiedendo di inibire le due società del gruppo Amazon dallo stoccare e spedire in Germania profumi recanti il marchio DavidOff immessi nell’UE senza il necessario consenso del titolare. Tuttavia, il ricorso era stato rigettato sia dal giudice di primo grado sia da quello d’appello, sul presupposto che Amazon non aveva né stoccato né spedito i prodotti in questione, limitandosi semplicemente a conservarli nei propri magazzini per conto della venditrice-terza. In altre parole, secondo i giudici tedeschi, Amazon non aveva un ruolo attivo nella commercializzazione dei prodotti offerti dai venditori terzi tramite il Marketplace – e, a riprova di ciò, osservavano che il contratto di vendita risultava stipulato direttamente tra il cliente e il venditore terzo – limitandosi invece a fornire una “vetrina” online e un servizio connesso di magazzinaggio.
In seguito al ricorso proposto da Coty avanti alla Suprema Corte tedesca, il giudice di legittimità aveva però ritenuto opportuno sollevare una questione di interpretazione pregiudiziale relativa all’art. 9 Reg. 207/2009 (ora abrogato, ma applicabile ratione temporis al caso di specie) e all’art. 9 Reg. 1001/2017 (che ha sostituito la norma abrogata assorbendone il contenuto). Le norme in questione, infatti, individuano un elenco non tassativo di utilizzi che il titolare di un marchio può vietare ai terzi. Tra questi figurano, in particolare: l’offerta in vendita di prodotti recanti il marchio altrui; la loro immissione in commercio; lo stoccaggio di prodotti recanti detto marchio finalizzato alla loro offerta/immissione in commercio. Con la questione sollevata, il giudice di legittimità tedesco chiedeva quindi alla Corte di Giustizia UE di chiarire se tali norme dovessero essere interpretate nel senso che un soggetto che conserva per conto di un terzo prodotti che violano i diritti su un marchio altrui (senza essere a conoscenza di tale violazione) compie uno «stoccaggio» finalizzato all’offerta o alla immissione in commercio degli stessi prodotti – vietato ai sensi dei citati artt. 9 – anche se in realtà è solo il terzo ad essere intenzionato ad offrire/immettere in commercio detti prodotti.
Secondo la Corte di Giustizia, per rispondere all’interrogativo posto era necessario verificare se l’attività esercitata da Amazon fosse qualificabile quale «uso» illecito del marchio altrui ai sensi degli artt. 9 citati, in particolare in termini di «stoccaggio» finalizzato all’offerta/immissione in commercio dei prodotti conservati nei magazzini della società. Sul punto, rilevando preliminarmente l’assenza di una definizione normativa di «uso» del marchio altrui, il giudice europeo ha richiamato alcuni precedenti giurisprudenziali della stessa Corte di Giustizia, secondo cui affinché tale «uso» possa qualificarsi come illecito è quantomeno necessario che chi utilizza il marchio altrui lo faccia nell’ambito di una comunicazione commerciale. In questo senso, ad esempio, la Corte aveva in passato ritenuto che, nell’ambito delle offerte di vendita pubblicate su una piattaforma di commercio online, la violazione dei diritti su un marchio di terzi fosse direttamente addebitabile ai venditori che si avvalevano della piattaforma, non invece al gestore della stessa[1]. Analogamente, la stessa Corte aveva ritenuto che chi fornisce a terzi un servizio di deposito per merci recanti il marchio altrui non compie necessariamente un «uso» di tale marchio ai sensi degli artt. 9 citati[2].
Su queste premesse, la Corte di Giustizia ha affermato che, affinché il magazzinaggio di prodotti recanti un marchio altrui possa essere qualificato come «uso» di tali segni, occorre che il soggetto che effettua tale magazzinaggio persegua in prima persona le finalità previste dai citati artt. 9, ovvero l’offerta dei prodotti o la loro immissione in commercio. Poiché, però, nel caso di specie, risultava con tutta evidenza che Amazon non avesse alcun ruolo attivo nella commercializzazione dei prodotti conservati a magazzino per conto dei venditori terzi (né vi era alcuna intenzione in tal senso), mentre l’offerta in vendita e l’immissione in commercio competevano esclusivamente a tali venditori terzi, la Corte di Giustizia ha quindi escluso che l’attività di “mero magazzinaggio” svolta da Amazon potesse considerarsi «stoccaggio» ai sensi dall’art. 9 citato (escludendo, in sostanza, che potesse costituire un «uso» illecito del marchio DavidOff da parte della stessa Amazon).
La Corte di Giustizia ha quindi concluso affermando che l’articolo 9, par. 2, lett. b), del Reg. 207/2009 e l’art. 9, par. 3, lett. b), del Reg. 2017/1001 “devono essere interpretati nel senso che una persona che conservi per conto di un terzo prodotti che violano un diritto di marchio, senza essere a conoscenza di tale violazione, si deve ritenere che non stocchi tali prodotti ai fini della loro offerta o della loro immissione in commercio ai sensi delle succitate disposizioni, qualora non persegua essa stessa dette finalità”. Il giudice ha però precisato che tale principio fa salva la possibilità di considerare che Amazon violi i diritti sul marchio DavidOff in relazione ai flaconi di profumo stoccati per conto proprio, o che, nell’impossibilità di identificare il venditore terzo, verrebbero offerti o immessi in commercio direttamente da Amazon.
[1] Sentenza del 12/7/2011, caso C‑324/09
[2] Sentenza del 16/7/2015, caso C‑379/14