Louis Vuitton sotto scacco: per il TUE è nullo il marchio raffigurante la trama degli storici bauli LV
Il Tribunale dell’Unione Europea ha recentemente respinto il ricorso proposto da Louis Vuitton Malletier avverso la decisione con cui la commissione ricorsi dell’UAMI aveva dichiarato – rectius, confermato la precedente sentenza della divisione annullamento dello stesso UAMI – la nullità di un suo marchio comunitario figurativo, costituito dall’iconica trama a scacchi marrone-beige usata nel XIX secolo come rivestimento per bauli e oggi per prodotti di alta pelletteria. Tale marchio era stato registrato dalla celebre maison nel 1998 relativamente ai prodotti indicati alla classe 18 (“articoli di pelletteria e relative imitazioni non compresi in altre classi”), per poi essere dichiarato nullo, nel 2009, in accoglimento di un’azione di nullità proposta da una società tedesca.
Nello specifico, la rilevata nullità del marchio in questione si fondava – invero non unicamente – sulla sua descrittività e conseguente mancanza di carattere distintivo (ex art. 7, paragrafo 1, let. b del reg. UE 207/2009), sul fatto che il segno tutelato fosse in realtà di uso comune per costante consuetudine commerciale (ai sensi dell’art. 7, paragrafo 1, let. d dello stesso regolamento) e, contestualmente, fosse costituito esclusivamente dalla forma di cui si sostanziano i prodotti cui esso atteneva (secondo l’art. 7, paragrafo 1, let. e, iii).
In tale contesto la divisione annullamento dell’UAMI prima, così come la commissione ricorso poi, dichiaravano la nullità del marchio controverso, ritenendo del tutto fondato il rilievo circa la sua mancata distintività, date la presunta banalità e la natura prettamente decorativa della trama a scacchi nel settore della pelletteria. Il tutto nonostante il titolare del marchio in via accessoria avesse anche provato a dimostrare – invano – un successivo acquisto di carattere distintivo del segno in seguito all’uso fatto dopo la sua registrazione come marchio.
Louis Vuitton si è quindi opposta a tale decisione con ricorso davanti al TUE. A sostegno dello stesso, la ricorrente ha dedotto – tra gli altri – i seguenti motivi:
violazione dell’art. 7, par. 1, let. 7 del Reg. UE 207/2009, dal momento che l’UAMI non si sarebbe limitato a valutare la presenza di un carattere distintivo minimo (come per qualunque altro marchio), ma avrebbe valutato illegittimamente la sussistenza di ulteriori caratteristiche volte ad attirare l’attenzione del consumatore di riferimento e, contestualmente, avrebbe considerato il marchio come se si trattasse di un semplice motivo a scacchiera;
violazione dell’art. 7, par. 3 dello stesso Regolamento, essenzialmente poiché l’UAMI avrebbe richiesto alla ricorrente di fornire le prove relative all’acquisizione del carattere distintivo del marchio controverso per ciascuno degli stati membri anziché per una sola parte sostanziale dell’Unione.
Tuttavia, il Tribunale ha rigettato il ricorso e ha confermato la decisione contestata, dopo aver confutato analiticamente le censure mosse dalla casa di moda francese.
In primo luogo – afferma il TUE – l’UAMI, ai fini di valutare la sussistenza di carattere distintivo del segno, ha correttamente considerato una soglia di carattere distintivo più elevata rispetto a quella adottata per valutare la distintività di un semplice marchio figurativo. Infatti nel caso di specie devono applicarsi i criteri valutativi propri del carattere distintivo dei marchi tridimensionali (necessariamente più gravosi), dal momento che il marchio controverso è un marchio sì figurativo, ma è costituito dalla rappresentazione bidimensionale del prodotto che contraddistingue, da cui non può prescindere: pertanto “il pubblico di riferimento lo percepirà immediatamente e senza riflessione come una rappresentazione di un dettaglio particolarmente interessante o attraente del prodotto di cui trattasi, piuttosto che come un’indicazione della sa origine commerciale”.
Ne consegue che, data la peculiare natura del segno, va applicato il criterio valutativo secondo cui “più la forma della quale è chiesta la registrazione come marchio assomiglia alla forma che con ogni probabilità assumerà il prodotto di cui trattasi, più è verosimile che tale forma sia priva di carattere distintivo”; dunque “solo un marchio che si discosti in maniera significativa dalla norma o dagli usi del settore (…) non è privo di carattere distintivo”. Cosa che non può certo dirsi del marchio in esame, in quanto tale segno, lungi dall’essere indipendente dal prodotto come i “normali” marchi figurativi, è parte integrante e si confonde con l’aspetto esteriore dei prodotti che designa (dato che ne ricopre la stessa superficie), senza essere in grado di descriverne l’origine.
Ancora, la critica secondo cui l’Ufficio avrebbe considerato il marchio come una banale trama a scacchi ritenendolo non distintivo su questa sola base è altresì infondata. Infatti, sia la combinazione cromatica marrone-beige che l’effetto visivo di intreccio “a catena” (singolarmente, ritenuti per nulla originali per i prodotti della classe 18), pur se valutati insieme – come del resto è doveroso trattandosi di marchio complesso – non rendono in ogni caso il marchio distintivo, poiché comunque “non lasciano apparire alcun elemento che diverga dalla norma o dalle abitudini del settore considerato”.
Anche in relazione al secondo motivo di ricorso il Tribunale si esprime in senso negativo. Il TUE ha, infatti, evidenziato come “dal carattere unitario del marchio comunitario derivi che, per essere ammesso alla registrazione, un segno deve possedere un carattere distintivo in tutta l’Unione”; quindi, diversamente da quanto fatto dalla ricorrente, “è necessario dimostrare l‘acquisizione di un carattere distintivo in seguito all’uso di tale marchio in tutto il territorio in cui esso ne era privo ab initio”.
Lo stesso Tribunale ha peraltro aggiunto che, anche laddove i documenti forniti dalla ricorrente fossero stati inerenti all’intero territorio europeo, questi comunque sarebbero stati idonei a dimostrare solo la commercializzazione di prodotti coperti dal marchio in questione, ma non anche a provarne la riconoscibilità – e dunque il carattere distintivo acquisto – presso il pubblico di riferimento. E questo perché i documenti prodotti non corrispondono a quelli indicati dalla giurisprudenza comunitaria come idonei a dimostrare presuntivamente l’acquisto di capacità distintiva di un marchio in seguito all’uso.