L’indispensabilità della prova del danno ai fini del risarcimento da concorrenza sleale: la sentenza n. 14098/2014
Con la sentenza di rigetto del 27 ottobre scorso, il Tribunale di Napoli ha deciso nel merito riguardo alla controversia promossa, nel 2011, da Miranda s.r.l. contro Planet Trade S.r.l., accusata di aver operato sul mercato in regime di concorrenza sleale a suo danno. In quella sede il Tribunale ha evidenziato come, ai fini dell’accoglimento della pretesa risarcitoria, per il richiedente sia indispensabile dare prova del danno asseritamente causato da condotte di concorrenza sleale, oltre che della sussistenza della stessa.
Nella fattispecie, l’attrice aveva denunciato la messa in commercio da parte della convenuta di uno specifico prodotto per l’igiene domestica, un panno in microfibra, contraddistinto da un marchio e un packaging del tutto identici — ma un prezzo decisamente inferiore — a un prodotto già commercializzato dall’attrice nello stesso territorio di riferimento: il “Panno microfibra extralarge”. Questa condotta, costituente secondo la prospettazione dell’attrice concorrenza sleale per confondibilità, avrebbe generato uno sviamento di clientela tale per cui essa sarebbe stata costretta a ridurre notevolmente il prezzo originario del prodotto per continuare a distribuirlo sul mercato, compromettendo i propri profitti. A dimostrazione di tali allegazioni, Miranda, in fase istruttoria, aveva richiesto l’escussione in qualità di teste di un agente di commercio, al tempo, suo collaboratore e aveva prodotto in giudizio le statistiche di vendita inerenti al 2008 congiuntamente a una lista di articoli fatturati suddivisi per cliente del 2007, attestanti a suo dire un sensibile calo del prezzo del prodotto. Su tali basi, l’attrice aveva, quindi, chiesto di essere risarcita dei danni subiti.
La convenuta, di contro, aveva rigettato ogni accusa mossa nei suoi confronti, asserendo tra l’altro che il marchio di cui l’attrice aveva lamentato la violazione presentasse una capacità distintiva così debole che la sua, anche leggera, modifica ne escludesse la violazione.
Il Tribunale, in sede di decisione, ha rilevato che, indipendentemente dalla comprovata debolezza del marchio (non registrato) “Panno microfibra extralarge”, si dovesse ritenere sussistente la concorrenza sleale lamentata a causa della confondibilità delle confezioni, data da elementi quali l‘identità dei colori, dei consigli di utilizzo, delle parole delle istruzioni, la raffigurazione in entrambe di uno spazzolone con panno sul medesimo sfondo (punteggiato da stelline bianche) e, da ultima, un’uguale decorazione floreale.
Tuttavia, il fatto che l’attrice avesse prodotto in giudizio solamente documenti di natura informale (comunque esaminati mediante CTU) — e non, ad esempio, estratti autentici dai propri registri contabili – ha indotto il Tribunale a ritenere non provato né il calo di fatturato né la relazione causale tra questo e le vendite del prodotto concorrente. Il Tribunale ha osservato che se anche questi dati fossero stati considerati come certi, essi avrebbero unicamente provato che nel biennio 2007-2008 l’attrice aveva venduto una certa quantità di panno microfibra a determinati clienti a un dato prezzo. In tale ipotesi, sarebbe stata dimostrata la diminuzione di prezzo della merce nei confronti di alcuni singoli clienti, ma ciò non sarebbe stato comunque sufficiente per dedurre un reale calo del fatturato complessivo dovuto alla concorrenza sleale operata dalla convenuta. Neppure è stata ritenuta sufficiente a integrare l’onere probatorio la deposizione del teste indicato dall’attrice.
Preso atto di tali circostanze, il Tribunale, quindi, ha rigettato la domanda dell’attrice per carenza di prova dell’esistenza del danno e del nesso di causalità intercorrente tra tale danno e la condotta sleale realizzata dalla convenuta.
La decisione in commento si pone, così, in perfetta linea con la sentenza della Corte di legittimità n. 16294/2012 — non a caso richiamata in motivazione — secondo cui il danno causato da atti di concorrenza sleale non è ad essa intrinseco, bensì necessita di essere autonomamente provato in quanto costituisce «conseguenza diversa ed ulteriore» rispetto alla violazione delle norme in materia di concorrenza.