Il Tribunale di Milano tutela il marchio Polo Player di Ralph Lauren
(Una versione di questo post è pubblicata anche su Diritto24 del Il Sole 24 Ore)
Lo scorso 5 novembre, il Tribunale di Milano (Sezione Specializzata in Materia di Impresa “A”) ha emanato una sentenza in una vertenza avente ad oggetto il noto marchio “Polo Player” del gruppo Ralph Lauren, raffigurante un giocatore di polo intento a colpire la sfera. L’attrice The Polo/Lauren Company (infra “Ralph Lauren”), titolare di una serie di marchi figurativi nazionali e comunitari aventi ad oggetto il “Polo Player”, aveva infatti agito per far dichiarare l’invalidità di due marchi depositati in Italia dalla convenuta R&D di Hong Kong, asseritamente contenenti un segno pressochè indistinguibile dal Polo Player medesimo. In aggiunta, l’attrice aveva chiesto che fosse accertato il carattere contraffattorio e concorrenzialmente sleale della produzione, commercializzazione, pubblicizzazione di prodotti contrassegnati dai marchi avversari effettuata dall’altra convenuta Slingroup s.r.l., con conseguente inibitoria, fissazione di penale e risarcimento dei danni. Le convenute, per parte loro, si erano difese eccependo la convalidazione dei loro marchi e negandone la contraffattorietà.
Nella pronuncia in esame, il Collegio giudicante analizza innanzitutto i marchi attorei azionati, affermando che si tratta di “marchi complessi, con componenti grafiche-denominative, nelle quali la figura del polo player, per la rilevanza assunta nel contesto del segno, va a costituire il nucleo ideologico in cui si riassume l’attitudine individualizzante (c.d. “cuore”) dei segni, dotato di autonoma potenzialità evocativa nella memoria del consumatore”. “Si tratta di un segno”, continuano i Giudici, “sicuramente oggi divenuto, più che rinomato, celebre nel mercato dell’ abbigliamento sportivo, quantomeno italiano (più di altri sensibile ai prodotti “firmati”) e che a livello internazionale è stato inserito, nel suo complesso grafico-denominativo, sin dal 2009 nel novero dei cento marchi più noti nel mondo (doc. 3 att.)”. Tale marchio, in conclusione, “appare dotato, nella sua peculiarità ed originalità grafico-concettuale, di un indubbio carattere distintivo (peraltro assai rafforzato nel tempo in ragione dell’intensa campagna promozionale cui le attrici lo hanno sottoposto)”.
In tale contesto, il Collegio rileva la pressoché totale identità, rispetto ai marchi Polo Player attorei, dei marchi della convenuta R&D, e ne dichiara perciò la nullità per mancanza di novità. Nel fare ciò, i Giudici rigettano peraltro l’eccezione di convalidazione avanzata dalle convenute sulla base dell’art. 28 del Codice della Proprietà Intellettuale (D. Lgs. 30/2005, “CPI”), secondo il quale il titolare di un marchio anteriore che, per cinque anni consecutivi, tolleri (essendone a conoscenza), l’uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile al suo, non può poi chiederne la dichiarazione di nullità né opporsi all’uso dello stesso sulla base del proprio marchio anteriore, a meno che il marchio posteriore sia stato registrato in mala fede. A tale proposito, la sentenza in commento rileva in primo luogo che le convenute non avevano provato che l’attrice fosse a conoscenza dei loro marchi e ne avesse quindi tollerato l’uso: non era infatti sufficiente a tal fine che si trattasse di marchi registrati; né erano sufficienti le prove sulla commercializzazione di prodotti riportanti tali marchi da parte delle convenute, limitate a vendite di poche migliaia di capi in vari anni, effettuate per brevi periodi e da soggetti attivi in settori diversi da quello dell’abbigliamento. Per contro, la sostanziale identità tra i marchi registrati da R&D e i precedenti marchi attorei faceva pensare che le registrazioni della convenuta fossero state effettuate in mala fede, altro elemento che portava ad escludere qualsiasi convalidazione.
Sulla base delle medesime considerazioni esposte in punto di nullità dei marchi di R&D, il Collegio accerta altresì la contraffazione posta in essere da Slingroup mediante la commercializzazione di prodotti riportanti i marchi in questione. In merito, i Giudici precisano che “anche ove in concreto la notevole diversità qualitativa dei prodotti (quale emergerebbe da talune produzioni in giudizio) dovesse escludere, agli occhi dell’acquirente ogni possibilità di errore, anche sulla provenienza da un soggetto contrattualmente vincolato con il titolare del marchio “originale”, non può non ricordarsi che l’ordinamento non si limita più a tutelare la sola funzione distintiva del marchio, ma anche (ove sussistenti) il valore attrattivo del segno e la carica suggestiva che ne è incorporata”. Il Collegio trova conferma, in proposito, nella tutela ultra-merceologica conferita ai marchi rinomati dall’art. 20 lett. c) CPI, secondo cui il titolare di un marchio ha il diritto di vietare a terzi di usare nell’attività economica “un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”. Nel caso di specie, rileva la sentenza, il Polo Player ha “sicuramente i requisiti per essere ritenuto rinomato, come risulta attestato dalla amplissima campagna pubblicitaria di cui è stato oggetto per più di un decennio e dall’inserimento del marchio nel 2009 tra i cento più noti al mondo (doc. 3 att.)”; e d’altra parte i marchi delle convenute ottengono “in concreto un indebito vantaggio, rappresentato dall’ agganciamento parassitario dei prodotti dell’ imitatore all’ immagine del marchio imitato, che consente loro di collocarsi sul mercato sfruttando tutte le valenze evocative del segno rinomato, acquisendo così uno spazio specifico (anche come “cloni” o imitazioni di basso prezzo) che altrimenti non avrebbero occupato”.
Accertata la contraffazione, il Tribunale inibisce quindi ogni ulteriore produzione, importazione, esportazione, pubblicizzazione, commercializzazione di capi contrassegnati dai marchi delle convenute, fissando una penale di euro 100 per ogni prodotto ulteriormente reperito in commercio, e ordinando il ritiro dal commercio e la distruzione dei prodotti e di tutto il materiale promozionale e pubblicitario recante i marchi in questione.
La sentenza passa infine alla quantificazione dei danni, in applicazione dei criteri di cui all’art. 125 CPI di cui abbiamo parlato tra l’altro qui in questo blog: danno emergente e lucro cessante, royalty ragionevole e utili del contraffattore.
In merito, i Giudici rilevano innanzitutto l’impossibilità di quantificare il lucro cessante subito da Ralph Lauren (alias le perdite) sulla base della royalty che il contraffattore avrebbe dovuto pagare se avesse ottenuto regolare licenza, posto che “va escluso che la casa di moda avrebbe potuto concedere licenza per un uso così grossolano del Polo Player, sicché tale criterio appare inutile per una corretta ricostruzione degli effetti dannosi della contraffazione”. D’altro canto, nemmeno “pare plausibile che la messa in commercio da parte di Slingroup dei prodotti contrassegnati dal Polo Player abbia potuto direttamente incidere negativamente sulle vendite dell’ attrice (non trattandosi di prodotti concretamente fungibili fra loro)”, per cui il Collegio esclude in sostanza che la perdita di Ralph Lauren possa essere calcolata applicando i margini di contribuzione attorei al numero di prodotti venduti dalle convenute.
“Tuttavia l’uso di un marchio evocante quello Ralph Lauren e di aspetto così simile per contrassegnare beni di scarsa qualità e di valore assai inferiore ha certamente determinato un pregiudizio in termini sia di danno emergente (si pensi agli effetti di parziale vanificazione delle campagne pubblicitarie) che di “diluizione del carattere distintivo” del marchio di cui è titolare e licenziataria l’attrice) e del suo indubbio significato evocativo (anche di particolare qualità e design), che non può non trovare ristoro. Soccorre quindi il criterio dell’utile del contraffattore”. Sulla base di tale criterio, verificato (da parte di un CTU) il fatturato realizzato dalle convenute con la vendita dei prodotti contraffatti, viene quindi calcolato il margine operativo lordo da esse realizzato, e che esse sono condannate a risarcire – assieme alle spese di lite – alle attrici.
Il Tribunale condanna altresì le convenute al risarcimento in forma specifica rappresentato dalla pubblicazione del dispositivo della sentenza per una volta, a caratteri doppi del normale sul quotidiano La Repubblica, nella versione cartacea ed on line, a cura dell’attrice ed a spese delle convenute, e precisa che “analoga pubblicazione dovrà essere fatta sul sito delle convenute, nella home page, per un periodo di giorni 90 dalla pubblicazione della sentenza”.