I diritti d’autore sull’opera derivata secondo la Cassazione: il Gabibbo e il suo progenitore del Kentucky

Il personaggio del Gabibbo, reso popolare in Italia dalla trasmissione “Striscia la notizia”, è al centro di un contenzioso internazionale in materia di diritto d’autore approdato fino in Cassazione (per la seconda volta) e ancora lungi dal finire.

Con l’ordinanza n. 14635/2018 dello scorso 6 giugno, infatti, la Suprema Corte ha riformato la sentenza della Corte d’Appello di Milano, che si era pronunciata sulla vicenda nel 2014, e rinviato la causa alla stessa Corte d’Appello per una nuova decisione.

La vicenda esaminata dalla Cassazione era cominciata nel 2009, quando l’americano Ralph Carey, ideatore della mascotte dell’Università del Kentucky “Big Red” (v. foto sotto), aveva citato in giudizio R.T.I., Antonio Ricci e altri per violazione dei propri diritti morali d’autore (i diritti patrimoniali sono di titolarità della stessa Università) e il risarcimento dei relativi danni.

Foto tratta dalla pagina Facebook “Big Red – Western Kentucky University”

Nel 2012, il Tribunale di Milano aveva concluso che il Gabibbo costituisse c.d. “plagio evolutivo” di Big Red e condannato i convenuti al risarcimento di 200.000 Euro in danni. Due anni dopo la Corte d’Appello, tuttavia, aveva integralmente riformato la sentenza, ritenendo al contrario che il pupazzo italiano presentasse “un gradiente di originalità creativa tale da farne comunque un’opera differente”.

Con la sentenza qui commentata, la Cassazione ha ribaltato per l’ennesima volta le sorti del processo.

La Cassazione ha, anzitutto, giudicato formalmente corretta e non censurabile nel merito la conclusione della Corte d’appello relativa all’assenza di plagio c.d. semplice. Quest’ultima si basava sul rilievo che il Gabibbo costituisse una forma espressiva della medesima idea di base, quella di un pupazzo umanoide “animato, dinamico e dotato di notevole vis comica”, connotata, tuttavia, rispetto a Big Red, da tratti marcatamente differenzianti, come la bassa statura, la figura più tozza, i piedi non calzati e sproporzionati, la totale mancanza di atletismo, la presenza di elementi d’abbigliamento sul corpo, la parlata dialettale genovese e il ruolo di surreale reporter satirico.

Sebbene, a parere di chi scrive, questo percorso argomentativo appaia parzialmente contaminato da criteri di valutazione più adeguati alla tutela del design che a quella del diritto d’autore (censura, peraltro, espressamente avanzata dal ricorrente e respinta dalla Suprema Corte), la Cassazione ha ritenuto che si trattasse di valutazioni in fatto adeguatamente motivate e, come tali, non censurabili in sede di legittimità.

Dove, invece, la Corte ha ritenuto censurabile la decisione della Corte d’appello è nell’aver apoditticamente escluso il ricorrere di un’ipotesi di “plagio evolutivo”. L’espressione, di origine giurisprudenziale, indica la creazione di un’opera derivata che in sé presenta caratteri di originalità tali da renderla meritevole di distinta tutela autoriale, ma è, al tempo stesso, lesiva dei diritti morali e patrimoniali dell’autore dell’opera originaria (specificamente, del diritto esclusivo di rielaborazione dell’opera), se da questi non autorizzata. La sentenza impugnata, secondo la Cassazione, avrebbe ritenuto l’assenza di plagio evolutivo una sorta di conseguenza necessaria del riconoscimento di originalità creativa all’opera derivata; al contrario, per i Giudici della Suprema Corte, il «plagio evolutivo» non è escluso dall’originalità creativa dell’opera derivata, in assenza del consenso alla rielaborazione dell’opera principale.

Pertanto, la sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, affinché proceda a nuovo esame del merito della controversia tenendo conto dell’ipotesi del plagio evolutivo, consistente in un’opera che, “per quanto non pedissequamente imitativa o riproduttiva dell’originaria, per il tratto sostanzialmente rielaborativo dell’intervento eseguito su quest’ultima” si traduce nella sua abusiva e non autorizzata rielaborazione, in violazione degli artt. 4 e 18 della legge n. 633 del 1941.

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