La campagna “Latin Lover” di Chanel non viola il marchio “Latin Lover”, dice il Tribunale di Milano
Il Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in Materia di Impresa “A”, si è recentemente pronunciato in una controversia che vedeva convenuta Chanel in relazione alla sua campagna pubblicitaria “Latin Lover” del 2010 (sent. n. 11375/2014 del 29 settembre 2014). L’attrice Latin Lover s.r.l., attiva nel settore “dell’abbigliamento sportivo, giovanile ed economico” e titolare dell’omonimo marchio registrato, lamentava infatti che quest’ultimo fosse violato dalla campagna fotografica in questione, utilizzata da Chanel per pubblicizzare i prodotti a proprio marchio.
Nella sentenza in parola, il Collegio giudicante ritiene che nessuna violazione sia stata commessa da Chanel, e ciò alla luce delle seguenti – sinteticamente motivate – considerazioni:
Chanel aveva contrassegnato i propri prodotti con il proprio marchio, e non con il marchio Latin Lover (che si limitava a dare il nome alla campagna pubblicitaria).
In sostanza, il Tribunale pare implicitamente affermare che questo tipo di uso non costituisce uso del marchio “nell’attività economica… per prodotti o servizi”, come richiesto dall’art. 20 del Codice della Proprietà Intellettuale (“CPI”) perché si abbia contraffazione.
“La parte denominativa del marchio attoreo, cioè l’espressione “Latin Lover”, è estremamente debole, in quanto usata ampiamente nel settore come evocativa di un abbigliamento elegante e di “elite””.
In proposito il Tribunale, dando per assodato l’ampio uso del marchio nel settore dell’abbigliamento, conferma la giurisprudenza secondo cui sono deboli i marchi non contenenti requisiti di particolare originalità rispetto a quelli frequentemente adottati in un determinato settore.
“Operando le parti in sezioni del mercato ben diverse (abbigliamento sportivo, giovanile ed economico – abbigliamento elegante e costoso) la confondibilità od associabilità tra i prodotti delle stesse è, in concreto, da escludere”.
A riguardo, il Tribunale appare applicare al caso la norma di cui all’art. 20 co. 1 lett. b) CPI, secondo la quale si ha contraffazione se viene usato un marchio “identico o simile” al marchio altrui per prodotti “identici o affini”, “se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”. Non risulta tuttavia meglio chiarito perché si applicherebbe questa norma anziché la lettera a) del medesimo articolo, che vieta tout-court l’uso di “un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato”, senza richiedere la sussistenza di alcun rischio di confusione o associazione.