Il Garante Privacy riconosce il diritto all’oblio in presenza di una condanna penale

Con provvedimento n. 153 del 24 luglio 2019, il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto in tema di c.d. diritto all’oblio, accogliendo un reclamo proposto nei confronti di Google LLC da parte di un soggetto coinvolto in una passata vicenda giudiziaria.

Mediante il reclamo, l’interessato chiedeva al Garante di ordinare a Google la rimozione di due URL, che apparivano come risultati di una ricerca effettuata usando come parole chiave il nome del reclamante stesso, collegati a pagine contenenti informazioni su una vicenda giudiziaria che lo aveva visto coinvolto nel 2010, sfociata in una condanna penale. Il reclamante fondava la propria richiesta sull’asserita carenza di un interesse pubblico attuale alla conoscenza di tali informazioni, considerato che la vicenda giudiziaria si era ormai esaurita da tempo e lo stesso aveva nel frattempo ottenuto la riabilitazione. In aggiunta, sottolineava di non rivestire alcuna carica pubblica tale da giustificare la reperibilità in rete di tali informazioni, mentre la loro permanente disponibilità costituiva un pregiudizio alla propria reputazione personale e professionale, poiché si trattava di informazioni obsolete ed il reclamante non aveva più subito indagini o accuse per i fatti in questione.

Google replicava sostenendo che, nel caso di specie, non sussistevano i presupposti per l’esercizio del diritto all’oblio a norma dell’art. 17 del Reg. 679/2016 (“GDPR”). Secondo Google, infatti, si trattava di informazioni rilevanti in quanto attinenti a fattispecie criminose di particolare gravità, non obsolete in quanto la vicenda giudiziaria si era esaurita solo nel 2013, e di interesse pubblico in quanto il reato era inerente all’attività imprenditoriale esercitata dal soggetto al momento della richiesta.

Secondo il reclamante, al contrario, la notizia non rivestiva interesse rispetto all’attività professionale svolta al momento della richiesta, riguardante il commercio e la produzione di beni diversi da quelli in relazione ai quali era stata applicata a suo tempo la pena.

Accogliendo integralmente le osservazioni del reclamante, il Garante ha puntualizzato che, sebbene l’istituto della riabilitazione non estingua il reato, comporta in ogni caso il venir meno delle pene accessorie e degli altri effetti penali della condanna, come misura premiale finalizzata al reinserimento sociale del reo. Questa circostanza, insieme al lasso di tempo decorso dal verificarsi dei fatti, implicava che l’ulteriore trattamento dei dati dell’interessato da parte di Google LLC, “posto in essere mediante la perdurante reperibilità in rete degli URL contestati, determina un impatto sproporzionato sui diritti del medesimo che non risulta bilanciato da un attuale interesse del pubblico a conoscere della relativa (…), tenuto anche conto del fatto che i citati articoli non risultano aggiornati con riguardo agli sviluppi successivi della stessa (…)”.

Pertanto, il Garante ha accolto il reclamo proposto e ha ordinato a Google di rimuovere, nel termine di venti giorni, gli URL individuati.

Nella decisione qui commentata, l’Autorità ha inoltre richiamato sul punto le Linee Guida del 2014 del gruppo ex Articolo 29[1] che, al fine di garantire piena tutela al diritto all’oblio, raccomandavano la cancellazione degli URL da tutti i domini rilevanti (sia europei che .com), e rilevavano che la prassi di informare gli utenti che la lista dei risultati di ricerca non è completa per via dell’applicazione di un provvedimento in materia di privacy è accettabile solo se non consente di comprendere quale sia il soggetto che ha richiesto la cancellazione degli URL che lo riguardano.

[1] Organo consultivo europeo indipendente operante in materia di protezione dei dati, sostituito dopo l’entrata in vigore del GDPR dal Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB).

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