“Quelli che” divulgano l’altrui immagine: con o senza consenso?

Una vicenda marginale, ma che nondimeno presenta profili di interesse in tema di diritti della personalità, è quella di cui si è occupato il Tribunale Civile di Milano decidendo della controversia tra un privato e la RAI (sentenza n. 8423/2015, pubblicata il 08/07/2015).

La vicenda trae origine da un servizio televisivo realizzato da Emanuele Filiberto di Savoia in qualità di “inviato” della trasmissione Quelli che… di Rai 2. L’inviato, collegato in diretta con lo studio dalle strade di Milano, si era introdotto all’interno del cassone di un motocarro dell’AMSA (la società che svolge il servizio rifiuti e pulizia stradale nella città lombarda), prima di essere invitato a scenderne dal conducente. Quest’ultimo era stato chiaramente ripreso nel servizio andato in onda.

Pochi mesi dopo, il conducente AMSA – che nel frattempo aveva anche subito un provvedimento disciplinare dall’azienda a causa dell’episodio appena descritto – aveva citato in giudizio la RAI per la divulgazione senza consenso della propria immagine, ritenuta lesiva dei propri diritti all’onore e al decoro, all’immagine e alla riservatezza, ex artt. 10 c.c., 96 l. 633/1941 e D. Lgs. 96/2003 (Codice della Privacy), chiedendo il ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

La RAI, prevedibilmente, si era difesa sostenendo che la diffusione dell’immagine dell’attore nelle modalità concrete con cui essa era stata realizzata fosse stata autorizzata dallo stesso.

Il Giudice ha accolto le difese della convenuta. Rilevando che il consenso richiesto ai fini della legittimità dell’utilizzo dell’altrui immagine ex artt. 10 c.c. e 96 L. 633/1941 – salve le ipotesi di notorietà della persona ritratta, o la ricorrenza di altre circostanze tali da giustificare tale utilizzo pur in difetto di consenso, cfr. art. 97 L. 633/1941 – può essere dato in qualsiasi forma ed anche tacitamente, ha ritenuto che nel caso di specie, per le modalità con le quali si era svolto il servizio televisivo, l’attore abbia, appunto, prestato tacito consenso alla diffusione della propria immagine nei modi in cui essa è stata effettuata.

L’esame del video, secondo il Giudice, dimostrerebbe infatti che, da un lato, l’attore fosse pienamente consapevole del fatto che fossero in corso riprese televisive della sua persona – l’inviato, persona nota al pubblico, stava parlando con la conduttrice in studio, e le telecamere erano in vista del conducente – e, dall’altro, non avesse manifestato in quel contesto alcun cenno di dissenso. D’altro canto, ha osservato il Giudice, non sarebbe dato ravvisare, nelle modalità di divulgazione dell’immagine dell’attore, alcun pregiudizio al suo decoro, onore o reputazione.

La lesione delle norme sul trattamento dei dati personali è stata invece esclusa dal Giudice con la distinta motivazione che, ai sensi del Codice della privacy, un’immagine, per qualificarsi come dato personale, debba essere in qualche modo collegata dal titolare del trattamento a una persona in particolare, di tal modo identificandola; mentre, nel caso di specie, l’attore, di per sé non noto al grande pubblico, non era stato in alcun modo reso identificabile dalla RAI mediante qualche riferimento alla sua persona.

Questa parte della sentenza, sebbene sorretta da un precedente della Suprema Corte (Cass. 12997/2009), lascia, a dire la verità, perplessi. Non consta che la normativa in materia di privacy richieda che il requisito dell’identificabilità del soggetto – ai fini della qualifica del “dato” come “personale” – dipenda da un comportamento positivo del titolare del trattamento o comunque da un’informazione nel suo dominio; al contrario, si ritiene in dottrina e nella giurisprudenza specialistica che l’identificabilità si realizzi anche quando esiste la possibilità che terzi, ragionevolmente in possesso dei mezzi all’uopo necessari, siano in grado di ricollegare l’informazione a un individuo specifico.

Sarebbe stato interessante, se il Giudice milanese avesse deciso di seguire l’orientamento più protettivo, osservare come avrebbe risolto l’apparente conflitto tra normativa civilistica e autoristica, da un lato, e normativa in materia di privacy, dall’altro, in materia di forma del consenso: la seconda, infatti, richiede che il consenso al trattamento di dati personali sia quanto meno “espresso” e documentato per iscritto, non lasciando spazio al consenso tacito.

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