L’uso imprudente di Facebook e di Internet può far licenziare un dipendente? Sì, secondo il Tribunale di Milano

Articolo pubblicato originariamente su Diritto24 de Il Sole 24 Ore (link)

Con ordinanza del 1 agosto 2014, il Giudice del Lavoro di Milano ha rigettato il ricorso di un dipendente licenziato dalla propria azienda per ragioni connesse all’uso di Facebook e di Internet sul luogo di lavoro (Trib. Milano, Sezione lavoro, R.G. n. 6847/2014, Dr.ssa Colosimo).

I fatti: alla fine del 2013, un’azienda lombarda aveva formalmente contestato a un proprio dipendente di avere, in orario di lavoro, scattato foto all’interno di una propria unità produttiva, ritraenti il dipendente stesso con alcuni colleghi, e averle pubblicate in Facebook accompagnandole con commenti molto poco lusinghieri nei confronti del datore di lavoro. Non basta: secondo l’azienda, dalla cronologia di navigazione di un p.c. nella disponibilità del medesimo dipendente risultavano diversi accessi a siti di carattere pornografico in giorno e orario di lavoro.

Su queste basi, l’azienda aveva intimato il licenziamento per violazione dei doveri di diligenza, correttezza e buona fede nell’esecuzione della prestazione lavorativa, rottura del rapporto fiduciario e lesione dell’immagine aziendale.

Il dipendente ha impugnato il licenziamento negando la riconducibilità a sé delle condotte contestate. Egli ha ipotizzato che terzi si fossero impossessati delle sue credenziali dell’account Facebook e avessero pubblicato in sua vece le foto e i relativi commenti denigratori; quanto all’uso del p.c. aziendale per la navigazione di siti porno, ha osservato di non essere l’unico dipendente ad avere accesso al computer in questione. Tuttavia, nel corso del giudizio, entrambe le tesi difensive sono crollate, e il Giudice ha ritenuto sufficientemente provato che tutte le condotte contestate fossero attribuibili al ricorrente.

Su queste premesse, il Giudice ha concluso, di fatto facendo proprie le tesi dell’azienda, che le condotte in questione concretassero “un’evidente violazione dei più elementari doveri di diligenza, lealtà e correttezza”, e, con particolare riferimento alle espressioni ingiuriose nei confronti dell’azienda contenute in un profilo Facebook pubblico, che esse determinassero una lesione dell’immagine aziendale; la navigazione su siti pornografici in orario di lavoro è stata inoltre ritenuta dal Giudice comportamento del tutto idoneo, “anche di per sé solo considerato”, a determinare un’irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, anche perché realizzato durante l’orario di lavoro, con conseguente interruzione della prestazione.

Dalla lettura della sentenza emerge che il dipendente non abbia neppure tentato – con riferimento al controllo da parte del datore di lavoro della cronologia di navigazione in Rete da una postazione lavorativa – una difesa fondata sull’eventuale inosservanza delle misure prescritte, a tutela della privacy dei lavoratori, dal provvedimento del Garante della Privacy n. 13 del 1 marzo 2007 sull’uso di Internet e della posta elettronica nel contesto lavorativo.

Quel provvedimento prescrive, ad esempio, ai datori di lavoro di specificare dettagliatamente le modalità consentite di utilizzo della posta elettronica e della rete Internet da parte dei dipendenti e detta linee-guida circa l’utilizzo di filtri o sistemi che impediscano in radice la navigazione di determinati siti. Esso vieta, inoltre, di effettuare controlli a distanza di lavoratori svolti, tra l’altro, mediante “la riproduzione e l’eventuale memorizzazione sistematica delle pagine web visualizzate dal lavoratore”.

A chi scrive non è dato sapere se non sussistessero i presupposti di fatto per usare simili difese. E’ comunque probabile che, anche se impiegate con successo, queste non avrebbero potuto mutare l’esito del giudizio, essendo ragionevolmente sufficienti a giustificare il licenziamento le condotte contestate relative all’uso improprio di Facebook.
Quel che è certo è che il Giudice milanese ha concluso per il rigetto integrale del ricorso del dipendente, confermando il licenziamento, e la condanna di questi alla rifusione delle spese.

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