La Cassazione sulla distinzione tra licenza e franchising e sull’autonomia giuridica e patrimoniale del know-how (Cass. Civ. sez. 3, ord. n. 10420/2019)

Decidendo sul ricorso per Cassazione proposto da una società egiziana del settore “food” contro una sentenza della Corte d’Appello di Milano, l’ordinanza in commento contribuisce a delimitare il confine tra licenza e franchising e rimarca l’autonomia concettuale e patrimoniale del know-how rispetto alla privativa industriale.

La società ricorrente aveva stipulato con una controparte italiana, titolare di diritti immateriali su un particolare tipo di pizza e sui mezzi per la sua realizzazione, un contratto per la produzione, commercializzazione e vendita in Egitto del prodotto in questione e relativi macchinari e per l’allestimento di punti vendita sotto il marchio di titolarità della seconda.

Nel corso del rapporto, le parti erano entrate in lite sul reciproco adempimento del contratto e sulla sua stessa interpretazione. In particolare, la società egiziana aveva agito in giudizio per chiedere la pronuncia di nullità ovvero annullamento o in subordine risoluzione per inadempimento del negozio, da essa qualificato come contratto di franchising; ma si era vista respingere le domande prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello di Milano, che lo avevano, invece, qualificato come licenza di know-how e marchio.

La ricorrente aveva impugnato la sentenza sostenendo tra l’altro che il giudice d’appello fosse incorso in un errore di qualificazione del contratto, per non aver rilevato che obblighi quali la commercializzazione del prodotto e delle attrezzature in un’area territoriale definita, l’apertura di un numero minimo di punti vendita, la conformità alle istruzioni date dai venditori autorizzati e la rendicontazione periodica caratterizzassero il contratto stesso come di franchising. Altrimenti valutando, il giudice sarebbe dovuto pervenire a una pronuncia di invalidità del negozio per carenza di elementi essenziali previsti dalla L. 129/2004 sui contratti di affiliazione commerciale.

In subordine secondo la ricorrente il negozio, a prescindere dalla sua qualificazione, avrebbe dovuto essere dichiarato nullo per mancanza di oggetto e/o di causa. Da questo punto di vista, l’individuazione da parte del giudice d’appello dell’oggetto del contratto nel solo sfruttamento del know-how e utilizzo dei marchi, e la considerazione di know-how e brevetti come elementi distinti, sarebbero errati. L’espressa rivendicazione nel contratto della titolarità di know-how relativo alla fabbricazione del prodotto in capo alla concedente lo renderebbe, al contrario, intrinsecamente legato allo sfruttamento di invenzioni brevettate; accertata l’assenza di brevetti per invenzione sul prodotto e sulla macchina, pertanto, anche il know-how in quanto tale sarebbe “svuotato di ogni contenuto”, donde la nullità del contratto per assenza di oggetto e/o causa.

Entrambi i motivi di ricorso (costituenti, in realtà, solo parte delle censure avanzate contro la sentenza; ma volutamente le uniche esaminate in questa sede) sono stati giudicati infondati dai giudici di legittimità.

La Cassazione, premessi i limiti del proprio sindacato in tema di qualificazione del contratto (circoscritto a vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale), ha anzitutto concluso che la motivazione della sentenza impugnata, in punto di qualificazione del contratto come di “licenza”, fosse esente da vizi.  La Corte milanese, secondo i giudici, ha correttamente valorizzato, oltre al nomen iurisdel negozio, la circostanza che le parti avessero fissato l’oggetto dello stesso nello sfruttamento del know how e nell’utilizzo dei marchi nel territorio, attività caratterizzanti il contratto di licenza, omettendo, invece, di disciplinare elementi tipici del contratto di franchising, quali l’inserimento dell’affiliato in una catena di distribuzione (anzi, il contratto prevedeva che fosse la società attrice a creare e organizzare la rete di vendita in Egitto) oppure il pagamento da parte dell’affiliato del cd. “diritto di ingresso” e altri aspetti caratterizzanti di quella fattispecie come l’addestramento, i controlli, l’obbligo di acquisto di prodotti destinati alla vendita.

Quanto alla pretesa nullità del contratto, la Cassazione ha ritenuto infondato il gravame nella misura in cui assuma che non possa esservi un contratto che attribuisca lo sfruttamento del know how separatamente dallo sfruttamento e l’utilizzo dei brevetti. Ciò sulla base di consolidata giurisprudenza della stessa Corte, secondo cui “le conoscenze che nell’ambito della tecnica industriale sono richieste per produrre un bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia, nonché le regole di condotta che, nel campo della tecnica mercantile, vengono desunte da studi ed esperienze di gestione imprenditoriale (cosiddetto know how in senso ampio), ove presentino il carattere della novità (quando comportano vantaggi d’ordine tecnologico o competitivo) e della segretezza (quando non sono divulgate) assumono rilievo come autonomo elemento patrimoniale suscettibile di utilizzazione economica da parte del possessore (cosiddetto know how in senso stretto) anche se derivino da invenzioni brevettabili che il titolare non intenda brevettare e preferisca sfruttare in regime di segreto, o da ideazioni minori non costituenti vere e proprie invenzioni brevettabili“.

Indietro
Indietro

Il marchio Apple non è confondibile con il marchio Pear. Tribunale UE, T-215/17

Avanti
Avanti

La sospensione del giudizio di contraffazione è necessaria in caso di contemporanea pendenza del giudizio sulla validità del brevetto, dice la Corte di Cassazione