Internet e diritto “all’oblio”: una recente sentenza del Tribunale di Milano
(questo articolo è pubblicato anche su Diritto 24)
Una recente sentenza del Tribunale di Milano (n. 5820/2013, pubblicata il 26.4.2013) in tema di diritto all’oblio in Internet offre lo spunto per una panoramica dello stato dell’arte nella giurisprudenza nazionale.
Il concetto di diritto “all’oblio” non è nuovo nella letteratura giuridica italiana, ma a renderlo di massima attualità sono state proprio l’esplosione di Internet e quella, concomitante, dell’informazione on-line.
Com’è noto, la maggioranza dei grandi quotidiani, una volta varata l’edizione digitale, ha ben presto digitalizzato il proprio archivio storico cartaceo rendendolo disponibile al pubblico on-line. Il vecchio articolo, che una volta era confinato in polverosi archivi visitati da pochi specialisti, oggi è a disposizione di tutti e 24 ore su 24 in Internet.
I meccanismi automatici d’indicizzazione dei principali motori di ricerca hanno fatto il resto. Se si fosse trattato “solo” di ricerca sui motori dedicati messi a disposizione sul sito delle varie testate, l’approdo ad articoli risalenti sarebbe stato comunque il risultato di una ricerca finalizzata. Ma quando un articolo è automaticamente indicizzato da Google e analoghi motori “generalisti”, ed è restituito come risultato primario ad ogni ricerca anche casuale fatta utilizzando come chiave il nome delle persone che vi sono citate, lo scenario muta radicalmente.
È così che individui protagonisti o comprimari di cronache del passato, ad anni o decenni di distanza, ritrovano il proprio nome in Rete permanentemente associato a vicende remote, anche quando ormai quelle non riflettono la loro attuale dimensione personale; in molti casi, poi, quando si tratta di cronaca giudiziaria, accade che la posizione processuale dell’interessato sia mutata a seguito di indagini successive o del processo, ma l’articolo associato al suo nome cristallizzi i fatti per come erano, o apparivano verosimili, all’epoca in cui fu scritto (per cui, più che di evoluzione personale del soggetto, si pone un problema di evoluzione dei fatti).
In questa, come in ogni altra questione giuridica, si contrappongono e devono essere bilanciati diversi interessi: l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, che aveva a suo tempo legittimato la pubblicazione dell’articolo originario; il diritto di libera ricerca storica, che consente la disponibilità pubblica di archivi completi; e, appunto, il diritto all’oblio. Quest’ultimo è stato costruito dalla giurisprudenza, anche con il contributo di quella qui commentata, come una particolare declinazione della tutela dell’identità personale, consistente nel diritto a vedere rappresentata la propria persona in maniera che rifletta la propria attuale dimensione personale e sociale; o, in negativo, nel diritto a non vedersi pubblicamente rappresentati in maniera non o non più corrispondente a quella (come si vede, l’espressione “diritto all’oblio” non è davvero descrittiva del concetto che intende veicolare, ed anzi può essere fuorviante; tuttavia è quella ormai correntemente usata, con questo significato, dalla giurisprudenza nostrana, e per questo motivo la si mantiene qui).
Per anni, di questioni come quelle sopra descritte si è occupato soprattutto il Garante dei dati personali, che ha in molti casi indicato una soluzione al problema nella semplice “de-indicizzazione” dell’articolo dai motori di ricerca esterni al sito del giornale, senza intervento diretto sul documento alla fonte. L’operazione è compiuta direttamente dal titolare del cosiddetto sito sorgente, qui l’editore, e non richiede la partecipazione attiva del titolare del motore di ricerca.
Tuttavia, in anni più recenti, il Garante ha registrato un aumento dei casi di richiesta d’intervento diretto sulla fonte, mediante la radicale rimozione dell’articolo dal sito sorgente o il suo aggiornamento. E quasi in contemporanea, e molto appropriatamente, l’Italia ha avuto il suo primo landmark case, la sentenza della Corte di Cassazione n. 5525/2012 (che si può leggere qui).
Il caso discusso davanti alla Suprema Corte è emblematico. Una persona nota aveva chiesto senza successo al Garante prima, e all’autorità giudiziaria poi, di ordinare all’editore Rcs l’aggiornamento di un vecchio articolo presente nell’archivio on-line del Corriere (e comparente ai primi posti nelle ricerche fatte in “Google” usando il nome e cognome del ricorrente) che dava conto di un suo arresto, senza ovviamente dare conto – perché all’epoca non era ancora intervenuto – del suo successivo proscioglimento da ogni accusa.
Il giudice di merito aveva negato la tutela sulla base della considerazione che la notizia, all’epoca in cui era stata data, era veritiera e di pubblico interesse, per cui la sua pubblicazione aveva costituito legittimo esercizio del diritto di cronaca; mentre la presenza attuale dell’articolo in Internet assolveva a una funzione storico-documentaristica, che sarebbe stata tradita da un’integrazione del testo, la quale avrebbe fatto venir meno il valore di documento storico dell’articolo. Era, anzi, arrivato ad escludere in radice l’esistenza di un diritto all’oblio del ricorrente, dato il suo status di personaggio pubblico, e di conseguenza la sussistenza di “un persistente interesse pubblico all’apprendimento di notizie relative alla storia personale, anche giudiziaria, dell’interessato”.
Ma la Corte Suprema è stata di avviso totalmente diverso. Essa ha riconosciuto espressamente l’esistenza di un diritto all’oblio, inteso nel senso di cui sopra di diritto alla tutela della propria (attuale) identità personale e morale nella sua proiezione sociale. Ha rimarcato la differenza tra un archivio in senso tradizionale e la Rete, dove tutte le notizie sono presentate in maniera non strutturata, “piatta”, e decontestualizzate. Ha osservato che se la finalità di documentazione storica può legittimare, dal punto di vista del Codice della privacy, la conservazione e pubblica accessibilità dell’articolo che riporta una determinata notizia e la persistente identificabilità del protagonista – la non eccedenza e persistente compatibilità del trattamento dei dati rispetto al legittimo fine del trattamento stesso è uno dei capisaldi del diritto della privacy – è però coerente con questa finalità, e al tempo stesso rispettoso del diritto all’oblio, che la notizia sia aggiornata e contestualizzata, o financo cancellata dall’archivio, se non risponde più a verità. Si può osservare incidentalmente che, quando la tutela assume questa seconda (estrema) forma, viene ripristinata la coincidenza tra l’espressione “diritto all’oblio” e il contenuto del diritto stesso.
La Corte ha quindi concluso per la sussistenza nel caso di specie di un obbligo a carico dell’editore di predisporre un sistema idoneo a segnalare (nel corpo o a margine) la sussistenza di un seguito e di uno sviluppo della notizia, consentendone il rapido accesso.
Quasi di passaggio, la Corte ha peraltro rilevato che il fornitore del servizio di motore di ricerca non avesse alcun ruolo o responsabilità nella vicenda, spettanti invece al responsabile del sito sorgente, e rigettando così una delle difese dell’editore, che aveva sostenuto il proprio difetto di legittimazione passiva in favore di Google. I lettori più attenti alle novità giurisprudenziali noteranno che quest’inciso anticipa di oltre un anno le conclusioni dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia Europea nella causa C-131/12 pubblicate il 25 giugno 2013 (nelle quali peraltro l’Avvocato Generale sembra negare l’esistenza nel diritto comunitario di un diritto all’oblio).*
Le ripercussioni di questa storica sentenza non si sono fatte attendere. Sulla sua scorta, tra il dicembre 2012 e il gennaio 2013 il Garante ha accolto due ricorsi prescrivendo all’editore di segnalare con un’annotazione a margine dell’articolo l’esistenza dello “sviluppo” della notizia, in modo da assicurare da un lato, all’interessato, il rispetto della propria attuale identità personale, e dall’altro, ad ogni lettore, un’informazione attendibile e completa. I due provvedimenti si possono leggere qui e qui. Si noti che si trattava di articoli già precedentemente de-indicizzati.
Ma anche i giudici ordinari hanno preso nota. Ed è, infatti, in parte “figlia” della decisione della Suprema Corte anche la sentenza milanese che ha offerto lo spunto per questo scritto, che la cita espressamente. Il caso, del resto, presenta diverse analogie con quello deciso dalla Cassazione.
L’attore qui lamentava la perdurante presenza in Rete – nell’archivio on-line de La Repubblica e, a cascata, nei motori di ricerca – di un articolo del 1985 in cui lo si descriveva come usuraio ed evasore e lamentava, oltre che la diffamazione, la violazione del proprio diritto all’oblio. Il giudice milanese ha escluso la diffamazione per prescrizione, ma ha riconosciuto la lesione del diritto all’oblio, ritenuto prevalente su ogni altro ipotetico interesse.
In particolare, ha osservato che i fatti addebitati all’attore erano risultati essere non tutti veri; che difettava il requisito dell’interesse pubblico alla loro permanente conoscenza, dato il lasso di tempo trascorso dalla vicenda e la carenza di un qualche ruolo di rilevo pubblico dell’attore; e che mancava il perseguimento di un’apprezzabile finalità, tale da giustificare l’identificabilità in Rete dell’attore in relazione al fatto storico, considerato che lo scopo di tenuta dell’archivio può essere soddisfatto con la conservazione di una copia cartacea.
Ricordando che la Cassazione aveva ipotizzato come misura estrema di tutela quella della radicale cancellazione dell’articolo dalla Rete, il giudice ha ritenuto che nel caso sottoposto al suo esame fosse proprio questo il rimedio più appropriato, data la carenza nella fattispecie di apprezzabili interessi da contrapporre alla tutela dell’identità personale.
Ha dunque ordinato la rimozione dell’articolo dall’archivio telematico del giornale, consentendo solo la tenuta di una copia cartacea, e condannato l’editore al risarcimento del danno morale.
Non c’è dubbio che per gli editori nazionali che hanno digitalizzato e immesso on-line il proprio archivio storico si pongano adesso enormi problemi di gestione. Escluso che si possa concepire una due diligence preventiva di milioni di articoli, essi dovranno decidere come gestire le richieste di aggiornamento o cancellazione in nome del diritto all’oblio che, senza dubbio, cominceranno ad arrivare, e staranno anzi già arrivando, sempre più numerose.
* Aggiornamento del 13/5/2014:la sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-131/2012 pubblicata oggi sconfessa le conclusioni dell’Avvocato Generale e riconosce che, al fine di rispettare i diritti previsti dalle norme comunitarie in materia di protezione di dati personali, il gestore di un motore di ricerca può essere obbligato “a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona … anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita”. Inoltre, pare riconoscere l’esistenza, nel diritto comunitario, di un “diritto all’oblio” laddove afferma che, nel caso in cui l’elenco di risultati restituito dal motore di ricerca a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, contiene informazioni che, sebbene veritiere, sono inadeguate, non pertinenti o non più pertinenti, ovvero eccessive in rapporto alle finalità del trattamento in questione realizzato dal gestore del motore di ricerca “le informazioni e i link in parola di cui al suddetto elenco di risultati devono essere cancellati”.